Benvenuta primavera!

Stagioni e calendari

Grafica sull'equinozio di primavera

Schema che mostra la Terra nel momento dell’equinozio di primavera. I raggi del Sole sono perpendicolari all’equatore e radenti ai due poli. I due emisferi sono quindi illuminati allo stesso modo. Crediti: Lorenzo Colombo

Dopo tre mesi di inverno è dunque nuovamente giunto il momento della primavera. La Terra compie da 4,5 miliardi di anni un lento balletto cosmico intorno al Sole, e nel farlo attraversa quattro momenti particolarmente importanti: i due equinozi e i due solstizi. Questi passaggi sono dettati da una semplice questione di geometria, che però ha conseguenze profonde: senza di essa, non avremmo le stagioni (o quasi). Quest’anno l’equinozio di primavera per il nostro emisfero cade alle 4:06 del 20 marzo 2024. In quel momento i raggi del Sole sono esattamente perpendicolari all’equatore, e nei sei mesi successivi il nostro diventa l’emisfero più illuminato.

Esatto, il 20 marzo! Ogni volta che un astronomo comunica data e orario dell’equinozio è destinato a osservare reazioni di completa incredulità da parte dei propri interlocutori. Questo perché nella cultura popolare le date delle stagioni astronomiche sono tutte uguali: il 21 del relativo mese. Persino alcuni libri di testo scolastici riportano questa concezione totalmente erronea. La realtà è che non è mai stato così né mai lo sarà! Perché allora proprio il 20 marzo?

Rispondere a questa domanda è un po’ come infilarsi nella tana del bianconiglio. Una storia che si fa rapidamente complicata, in cui generali, papi, astronomi, lingue, corpi celesti e calendari si intrecciano inestricabilmente.

Il pendolo celeste

Non va bene rispondere a una domanda con un’altra domanda, ma in scienza a volte è inevitabile: che cos’è un calendario? Si tratta di un modo per organizzare lo scorrere del tempo, che richiede secoli per essere sviluppato e solitamente è tipico di ogni cultura del globo. Il nostro discende da quello degli antichi romani, con un pizzico di Grecia, Egitto e Mesopotamia. Per fare un calendario efficiente serve un fenomeno di riferimento, qualcosa di ciclico e predicibile.

La prima scelta dei nostri antenati fu quella di contare le stagioni. Il loro ripresentarsi ciclico era perfetto per calcolare l’età delle cose e accorgersi dello scorrere del tempo. Quattro stagioni corrispondevano a un anno, parola la cui etimologia stessa fa riferimento al “tempo” o alla “ciclicità”. Però una stagione è un periodo piuttosto lungo, e a volte è necessario essere più precisi. Specie se si vogliono pianificare la semina e il raccolto, la caccia e la migrazione, senza rischiare che la comunità muoia di fame perché si sono sbagliati i tempi!

Calendario lunare islamico del 1280, conservato presso il Linden Museum di Stoccarda. Crediti: Karl Heinrich

La seconda scelta dei nostri antenati fu quindi la Luna con le sue fasi: un pendolo celeste, il cui aspetto ritorna uguale ogni 29,5 giorni circa. Ecco quindi la nascita dei calendari lunari, in cui l’anno è suddiviso in mesi (parola la cui etimologia risale proprio alla Luna). Tutt’oggi il calendario liturgico musulmano segue un calendario puramente lunare in cui i mesi durano alternativamente 30 o 29 giorni. In tali calendari l’inizio di ciascun mese corrisponde a una determinata fase lunare, solitamente la Luna nuova, e ogni 12 mesi viene conteggiato un anno.

I nostri antenati però erano anche abili astronomi, e con la paziente osservazione del cielo si erano accorti dell’esistenza di quattro momenti fondamentali, associati proprio al ciclo delle stagioni: in tali giorni il Sole raggiungeva la massima o minima elevazione in cielo (i solstizi) o sorgeva e tramontava esattamente a est e ovest (gli equinozi). Furono costruiti monumenti di proporzioni immense proprio sulla base di tali osservazioni, come le piramidi di Giza o i circoli di pietre come Stonehenge.

È immediato notare che i due cicli non coincidono: 12 mesi lunari contengono infatti 354-355 giorni, mentre il tempo tra due equinozi di primavera è di circa dieci giorni maggiore, intorno ai 365. Come se non bastasse, equinozi e solstizi sono totalmente slegati dalla fase lunare. Un disallineamento che fu oggetto di infinite discussioni, e che portò alla nascita di un intero ramo dell’astronomia: il calcolo dello scorrere del tempo usando i movimenti dei corpi celesti.

Il primo calendario romano è avvolto nella leggenda, tanto che gli stessi storici romani del 1° Secolo ne parlavano in modo speculativo e lo attribuivano nientemeno che a Romolo stesso. Si trattava probabilmente proprio di un calendario lunare costituito da sei mesi di 30 giorni (mesi cavi) e quattro mesi da 31 giorni (mesi pieni). A questo totale di 304 giorni seguiva un periodo invernale di tempo variabile in cui i giorni semplicemente non venivano conteggiati. Dopotutto il primo scopo di un calendario è cadenzare i tempi dell’agricoltura, e d’inverno non si coltivava nulla. Tale pausa nel calendario permetteva di riallineare approssimativamente il ciclo lunare a quello solare.

Il primo mese dell’anno era dedicato a Marte (mensis Martius), il secondo alla dea che apriva le corolle dei fiori, Apru (mensis Aprilis), il terzo alla dea Maia (mensis Maius) e il quarto a Giunone (mensis Iunius). Il resto veniva semplicemente numerato: quintile, sestile, settembre, ottobre, novembre, dicembre. Ciascun mese era caratterizzato da tre giorni particolari: il giorno in cui compariva la prima falce di Luna crescente dopo la Luna nuova (calende, dal latino per “convocare”), il giorno del primo quarto (none, in quanto il nono giorno prima delle idi) e il giorno della Luna piena (idi, da una radice indoeuropea per “splendere” o etrusca per “dividere”). Anche se non sappiamo esattamente quanto fu in vigore questo calendario, né ne conosciamo nei dettagli il funzionamento, la sua esistenza è molto probabile anche solo per i nomi dei mesi, sopravvissuti fino al giorno d’oggi.

Dalla Luna al Sole

Mettere insieme il ciclo lunare con quello solare non è cosa facile, ed è lo scopo dei calendari lunisolari: sono basati sulla Luna, ma periodicamente introducono delle correzioni per riallineare i mesi lunari al ciclo solare delle stagioni. Ogni popolo ha avuto il suo particolare approccio al problema, qualcuno limitandosi a risolvere approssimativamente il discostamento quando era troppo grande, altri utilizzando precisi rapporti matematici. Questo era il caso dei molti calendari prodotti dall’astronomia ellenica, in grado di misurare la durata di questi cicli con accuratezza incredibile.

La soluzione matematica più diffusa è il cosiddetto ciclo metonico, da Metone di Atene (V sec. a.C.). L’astronomo si era infatti accorto che 19 anni solari corrispondono quasi esattamente a 235 mesi lunari, cioè sette mesi in più rispetto a 19 anni lunari normali da 12 mesi ciascuno. La soluzione era quindi di distribuire i sette mesi aggiuntivi sui 19 anni, e in tal modo il ciclo solare e quello lunare rimanevano allineati. Il mese aggiuntivo intercalare era chiamato embolismico e diventava il tredicesimo mese dell’anno in corso, che invece di durare 354-355 giorni veniva allungato a 383-384 giorni. Forse è anche per questo che fin dall’alba dei tempi il tredici fu considerato portatore di sventura: allungava gli anni e rompeva la routine.

Questa soluzione è molto, molto antica. Nei calendari lunisolari mesopotamici del II millennio a.C. l’inizio del mese era ancora legato all’osservazione della Luna nuova, ma c’erano già tracce del ciclo metonico. Il tutto fu formalizzato dagli Assiri nel VII secolo a.C., che slegarono il calendario dalle osservazioni. Tramite loro l’informazione giunse proprio a Metone. Tutt’oggi il calendario liturgico ebraico (e la nostra Pasqua) segue questo ciclo lunisolare, e i linguisti legano la parola per il giorno sacro ebraico, Shabbat, a quella babilonese antica per il festival della Luna piena, Shabattu. La pratica di correggere il calendario con l’osservazione della Luna nuova la ritroviamo invece proprio in quello musulmano, a indicare l’origine comune di questi due sistemi per tenere il tempo.

In quanto ai romani, passarono infine a un calendario lunisolare anche loro. La leggenda vuole che già il secondo re di Roma, Numa Pompilio, si fosse stufato dello strano calendario decimensile romulano, e che avesse compiuto una riforma sulla base del ciclo metonico. Il che è impossibile, perché non lo poteva ancora conoscere, ma così riferisce Livio. Più probabilmente tutto ciò avvenne due secoli più tardi, in una riforma del 450 a.C.

Il primo passo fu disfarsi della pausa invernale e integrare quei 50 giorni extra nel calendario, che diventava così da 354 come quelli lunari dell’Antica Grecia. Questi giorni invernali vennero divisi in due mesi nuovi di pacca: il primo dedicato a Giano, il dio bifronte (mensis Januarius) e il secondo dedicato ai riti di purificazione di fine anno, le februa: febbraio (mensis Februarius).

Gli antichi romani erano un popolo molto superstizioso, e tradizione vuole che Numa abbia importato a Roma le idiosincrasie proprie dei pitagorici, tra le quali quella che i numeri pari portino sfortuna. I mesi “cavi” vennero quindi ridotti da 30 a 29 giorni, e i sei giorni recuperati in tal modo furono trasferiti ai due mesi nuovi, che ne contenevano quindi 28. Anche 354 però era un numero pari, e quindi venne aggiunto un ulteriore giorno, a gennaio, in modo che il totale fosse 355. Rimaneva quindi solo febbraio con un numero pari di giorni, ma tanto era considerato sfortunato di suo in quanto associato alle penitenze di fine anno.

Calende, none e idi vennero ereditate dal nuovo calendario, ma furono slegate dalle osservazioni astronomiche. Le calende cadevano il 1° del mese, le none il 5°/7° giorno (rispettivamente per i mesi “cavi” e “pieni”) e le idi il 13°/15° giorno. I romani non numeravano i giorni dal primo del mese, ma li contavano a ritroso con i numeri ordinali partendo da questi tre giorni significativi. Per esempio, il 2 marzo veniva chiamato “il sesto giorno prima delle none di marzo” (2-3-4-5-6-7, sei giorni comprese le none che cadono il sette), e il 27 febbraio era “il terzo giorno prima delle calende di marzo” (27-28-1, tre giorni).

Un calendario lunare di 355 giorni però è presto destinato a sfasare le date delle ricorrenze dalle stagioni in cui devono cadere, ed era quindi necessaria l’introduzione di una correzione periodica e sistematica, come avveniva in Grecia. Numa introdusse quindi l’opportuno mese embolismico: mercedonius o intercalaris. Solo che i romani vollero fare le cose a modo loro.

Invece di aggiungere un mese intero sette volte in diciannove anni, come auspicato da Metone, decisero di aggiungere 22 o 23 giorni ogni due anni. E lo fecero pure troncando un pezzo di febbraio, eliminando gli ultimi cinque giorni prima di inserire un mercedonio completo da 27 o 28 giorni. Il 23 febbraio era un momento importante per la religione romana, in quanto ospitava la festa dei Terminalia, dedicata al dio dei confini Giove Termine, una sorta di capodanno religioso. Era quindi logico usare tale ricorrenza per interrompere il mese e inserire l’intercalare. In anni normali invece il mese continuava normalmente, e il 24 febbraio era chiamato “il sesto giorno prima delle calende di marzo”. Questo fatto tornerà quando meno te l’aspetti.

In quanto alle date di equinozi e solstizi, un calendario lunisolare non permette di renderle delle ricorrenze fisse, vista la continua aggiunta e sottrazione di mesi e giorni. Venivano calcolate di volta in volta, e si cercava di tenere l’equinozio di primavera intorno a una data tradizionale: il 25 marzo, il culmine della festa dedicata a Cibele chiamata Hilaria, giorno di rinascita e resurrezione.

Il criterio per l’aggiunta di mercedonio, sulla carta, era chiaro, e i romani alternavano anni da 355 e 377 giorni (e quindi mediamente 366, troppo rispetto all’anno solare medio). Occasionalmente veniva aggiunto un giorno extra prima dell’inizio di mercedonio per evitare che alcune feste si sovrapponessero a giorni della settimana sfortunati, producendo anni da 378 giorni. Ancora più occasionalmente si saltava il mercedonio, per recuperare l’eccesso di giorni aggiuntivi. La ricetta per il disastro.

Arriva Cesare

Tecnicamente una formula per mantenere il calendario repubblicano in riga con l’anno solare c’era, come riportato da Macrobio. Sarebbe bastato seguire un ciclo di 24 anni fatto da sei gruppi di quattro anni ciascuno. I primi quattro gruppi sono identici: anno normale da 355 giorni, anno con mercedonio da 27 (tot 377), anno normale da 355, anno con mercedonio da 28 (tot 378). Il quinto gruppo invece ha il secondo mercedonio da 27 giorni, mentre il sesto gruppo lo salta totalmente. In tal modo si avevano tredici anni da 355 giorni, sette da 377 giorni e quattro da 378 giorni. Il totale fa 8766 giorni, che corrisponde esattamente a 24 anni solari da 365,25 giorni.

La dura realtà è che il potere di dichiarare l’introduzione del mercedonio o del giorno intercalare aggiuntivo a febbraio non era in mano agli astronomi, ma al sommo sacerdote della religione romana, il Pontefice Massimo. Questa era una carica politica elettiva che veniva ricoperta a vita, e chi la ricopriva spesso ne abusava i poteri con malizia. Magari per allungare il consolato di una figura amica, proclamando il mercedonio, o rovinare delle elezioni ostili inserendo dei giorni festivi, e così via. Dalle date riportate storicamente di eventi astronomici noti e calcolabili sappiamo che a volte il calendario repubblicano era spostato anche di 2-3 mesi rispetto al ciclo solare.

Busto di Giulio Cesare, autore della più importante riforma del calendario degli ultimi due millenni. Crediti: Musei Vaticani

Nel 63 a.C. questa carica finì nelle mani di Gaio Giulio Cesare. Il condottiero ereditò una situazione già compromessa dalle lotte politiche dei decenni precedenti, e a sua volta trascurò i suoi doveri da pontefice durante la lunga serie di campagne militari della guerra gallica, bretone e civile. Il risultato è che il calendario romano cadde nel caos più totale, e le date si sfasarono completamente dal ciclo delle stagioni.

Una volta diventato padrone di Roma, Cesare decise quindi di sistemare una volta per tutte il calendario, al fine di renderlo indipendente dalle speculazioni politiche e disfarsi degli intercalari aleatori. Durante la sua campagna in Egitto era entrato in contatto con l’astronomia egizia (che da millenni usava un calendario solare da 365 giorni) e la scienza ellenica (che aveva misurato la durata frazionaria dell’anno solare, pari a 365,25 giorni). Fu colpito in particolare dall’astronomo personale di Cleopatra, Sosigene d’Alessandria. Questi venne invitato a Roma e fu incaricato di redigere il nuovo calendario romano, che divenne lo standard europeo per i successivi 1600 anni: il calendario giuliano.

Per portare la durata del calendario da 355 a 365 giorni era necessario aggiungere dieci giorni, che vennero distribuiti tra i “mesi cavi” da 29 giorni. Ecco quindi che aprile, giugno, settembre e novembre tornarono da 30 giorni, mentre gennaio, sestile e dicembre divennero addirittura da 31. Posizione di none e idi non cambiarono e si mantenne il retaggio dei mesi più corti del calendario originale, anche nei nuovi mesi da 31 giorni. Febbraio con le sue februa continuò a essere considerato sfortunato, e rimase da 28.

Infine fu decisa l’intercalazione: siccome l’anno solare era stato misurato in 365,25 giorni, era necessario aggiungere un giorno extra ogni quattro anni. Il mese scelto per tale onore fu ovviamente il più bistrattato, febbraio, che quindi occasionalmente diventava da 29 giorni. Il giorno aggiuntivo fu inserito lì dove veniva intercalato il defunto mercedonio, cioè dopo i Terminalia del 23 febbraio. Era quindi come se il 24 febbraio, il sesto giorno prima delle calende di marzo (a.d. sextum Kal. Martias) venisse ripetuto due volte o valesse doppio, diventando a.d. bis-sextum Kal. Martias: il bisestile. Gli antichi per molto tempo lo trattarono letteralmente come un singolo giorno lungo 48 ore!

Sistemata la questione di come funzionava il calendario, le date andavano infine riallineate con le stagioni. La situazione era talmente grave che nel 47 a.C. l’equinozio di primavera era caduto a fine giugno. Durante la stesura della riforma Cesare aveva già proclamato un mercedonio per il 46 a.C., ma non bastava, perché lo sfasamento era troppo grande. Cesare proclamò quindi l’aggiunta di ulteriori 67 giorni alla fine dell’anno! Cinque vennero assegnati a novembre (c’è stato un 35 novembre!), e 62 vennero assegnati a due mesi aggiuntivi da 31 giorni ciascuno: Intercalaris Prior e Intercalaris Posterior (secoli dopo furono chiamati scherzosamente undicembre e duodicembre). Il 46 a.C. divenne così l’anno più lungo di cui si abbia notizia, con la bellezza di 445 giorni totali (355+23+67), e fu chimato “l’anno della confusione”.

Non è noto perché Cesare abbia scelto di aggiungere proprio 67 giorni all’ultimo anno del calendario repubblicano, ma gli effetti furono molteplici e forse intenzionali. Innanzitutto, il 1° gennaio (calende) del 45 a.C. si verificò una Luna nuova, così come voleva la tradizione del defunto calendario lunare. Secondo, 67 è la somma di 22+22+23, cioè il totale di tre mesi intercalari saltati. Terzo, lo spostamento portava il solstizio d’inverno a cadere il 25 dicembre e l’equinozio di primavera al 25 marzo, come voluto dalla tradizione antica e dal festival degli Hilaria. Infine tale aggiunta rendeva la distanza temporale tra il 1° marzo del 46 a.C. (l’antico capodanno religioso) e il 1° gennaio del 45 a.C. (capodanno civile in vigore dal 153 a.C.) esattamente di 365 giorni.

Cesare però non vide mai la sua creatura in funzione. Pochi mesi dopo, il 15 marzo del 45 a.C., venne assassinato in una congiura. Ironia della sorte, quel giorno -le idi di marzo- cadde correttamente la Luna piena, l’ultima volta che ciò avveniva per una decisione intenzionale. L’ultimo omaggio all’antico calendario lunare.

Equinozi alla deriva

In questo calendario murale romano del 1° secolo a.C. sono già presenti i dodici mesi moderni (con luglio e agosto ancora chiamati quintile e sestile) a cui si affianca l’occasionale mese intercalare, o mercedonio, riportato nell’ultima colonna a sinistra. I romani seguivano una “settimana” di otto giorni, indicati ciascuno da una lettera dalla A alla H. Crediti: Bauglir – Wikimedia Commons*

Dopo la morte di Cesare ci fu qualche decennio di defaillance e nuovi conflitti civili, in cui i sacerdoti inserirono il bisestile ogni tre anni invece che ogni quattro (per via della confusionaria tradizione romana di contare le cose con gli ordinali). Fu l’intervento di Augusto, erede di Cesare e primo imperatore romano, a risistemare le cose. Ci sono varie interpretazioni su quali e quanti bisestili siano stati osservati o saltati, ma il risultato è che la situazione si stabilizzò nell’8 d.C., e da allora il bisestile venne rispettato senza più perdere un colpo per quasi sedici secoli. In memoria di Cesare il mese di quintile venne dedicato alla gens Julia, mensis Julius, diventando il moderno luglio, mentre in onore ad Augusto che aveva sistemato una volta per tutte il calendario (e l’impero) venne dedicato il mese di sestile, mensis Augustus, da cui il moderno agosto. Altri tentativi di rinominare i restanti mesi a questo o quell’imperatore non ebbero successo.

Le date, tuttavia, ancora non sono quelle a cui siamo abituati, perché la decisione di Cesare poneva i giorni dei solstizi ed equinozi come segue: 25 marzo, 26 giugno, 27 settembre e 25 dicembre. Già all’epoca quindi i quattro momenti non cadevano lo stesso giorno del mese. È una semplice conseguenza della durata delle stagioni e della durata dei mesi, che non lo permettono. Non è mai successo e non succederà mai. Come siamo finiti allora al 20 marzo? Bisogna introdurre un nuovo personaggio, a cui avevamo accennato già nell’articolo sull’equinozio di primavera: Papa Gregorio XIII e la sua (ennesima) riforma del calendario.

Il calendario giuliano era infatti un’ottima approssimazione dell’anno solare, sicuramente migliore di quello preesistente, ma restava un’approssimazione. Inevitabilmente le stagioni ripresero a spostarsi, stavolta in direzione opposta (seppure molto più lentamente): in pratica ora la correzione era troppo grande!

Il tutto ha a che fare con cosa si intende per “anno”, perché ovviamente esistono svariate definizioni. Più si vuole essere precisi, più si deve scendere nel dettaglio, e per ottenere un calendario stabile a lungo bisogna considerare anche gli effetti più piccoli. La prima cosa che viene in mente quando si parla di anno è “il tempo che la Terra impiega a girare intorno al Sole”. Tale definizione in astronomia corrisponde a un concetto preciso, l’anno siderale, perché misurato rispetto alla posizione delle stelle lontane. E purtroppo non è questo l’anno che ci interessa!

L’antica missione dei calendari è proprio quella di mantenere stabili eventi religiosi e agricoli legati al ciclo delle stagioni. L’intervallo su cui va basato un calendario di questo tipo è quindi quello che intercorre tra due equinozi di primavera, che in astronomia viene chiamato anno tropico… e che non coincide con quello siderale! L’asse di rotazione del nostro pianeta descrive infatti molto lentamente un cerchio nel cielo. Il pianeta si comporta un po’ come una trottola ubriaca, e l’intero ciclo viene compiuto in circa 26.000 anni. L’effetto è che mentre la Terra orbita intorno al Sole, il suo asse si sposta di un pochetto, anticipando la posizione in cui il pianeta si viene a trovare in situazione equinoziale: il fenomeno viene chiamato proprio precessione degli equinozi.

Il risultato è che l’anno tropico dura 365,24219(…) giorni, circa 11 minuti in meno della durata canonica dell’anno giuliano, fissata a 365,25 giorni (e 20 minuti meno dell’anno siderale). Inevitabilmente gli equinozi hanno quindi preso ad anticipare di 11 minuti ogni anno. Inizialmente era poca cosa, ma col tempo tale differenza iniziò a farsi sentire. Il fenomeno era già noto diffusamente all’epoca di Dante, che nella Divina Commedia parla di “scandaloso errore”, e nel 1580 l’equinozio di primavera cadde addirittura a mezzogiorno del 10 marzo!

Nei secoli trascorsi la religione predominante era cambiata, ma le necessità erano le stesse. Ora erano i cristiani al comando, e la loro festa principale, la Pasqua, era posizionata nel calendario proprio in base alla data dell’equinozio di primavera e della prima Luna piena della stagione, antichissimo retaggio dei calendari mesopotamici portati a occidente durante il tardo impero. Alla luce di questo, un equinozio al 10 marzo non era semplicemente accettabile, perché rischiava di far collidere le festività fissate nel calendario solare (come Natale ed Epifania) con quelle mobili legate alla Pasqua (Ceneri, Quaresima, Pentecoste).

Ritratto di Papa Gregorio XIII, autore della riforma che porta il suo nome e del calendario ancora oggi in vigore.

Fu così che il Papa dell’epoca, Gregorio XIII, pubblicò nel 1582 l’enciclica inter gravissimas, in cui veniva riformato per l’ultima volta (e auspicabilmente in modo definitivo) il calendario solare. Si era anche in clima di controriforma, e la Chiesa di Roma voleva mettere le carte a posto e imporre la propria autorità in tema di calendario liturgico.

La riforma voluta da Gregorio XIII in realtà non era così rivoluzionaria, perché si limitava ad apportare una piccola modifica al calendario di Giulio Cesare. Il nuovo calendario gregoriano a prima vista funziona esattamente come quello giuliano, aggiungendo un giorno bisestile ogni quattro anni. Nel caso di un secolo tondo ecco però che la questione cambia: solo i secoli divisibili per 400 sono bisestili! In parole povere, il 1700, 1800 e 1900 non sono stati bisestili (nonostante fossero divisibili per 4), ma il 2000 sì (perché divisibile per 400), mentre 2100, 2200 e 2300 verranno nuovamente saltati.

È proprio grazie a questa piccola differenza (97 bisestili ogni 400 anni, invece di 100) che il calendario gregoriano rimane allineato alle stagioni terrestri, con una durata media dell’anno pari a 365,2425 giorni. Una differenza di appena 26 secondi all’anno, cioè un giorno in 3030 anni. In pratica stiamo tranquilli fino all’anno 4000 e oltre. C’è solo un calendario attualmente in vigore che fa meglio del gregoriano: il calendario persiano, o Hijri. In tale sistema si segue un ciclo di 8 bisestili ogni 33 anni, per una durata media dell’anno pari a 365,2424 giorni. L’errore è di 18 secondi annui, il che implica una stabilità per quasi 5000 anni. In realtà il calendario può essere riallineato in base all’osservazione astronomica dell’equinozio di primavera, rendendo necessaria tale correzione solo ogni circa 141.000 anni!

Creare un calendario ancora più preciso è molto difficile, perché su periodi così lunghi diventa difficile prevedere la durata dell’anno tropico, in continuo cambiamento a causa dei lenti moti secolari dell’orbita terrestre. L’azione del Sole e dei pianeti sul nostro pianeta ne cambia continuamente eccentricità, inclinazione e periodo, in un comportamento caotico e la cui predizione è estremamente complicata.

Finalmente, perché il 20 marzo

Una volta sistemata la durata del calendario, Gregorio XIII dovette decidere come riallineare le date e gli equinozi, esattamente come capitò a Giulio Cesare oltre 1600 anni prima. La decisione fu ovviamente presa su base religiosa, e il cardine della discussione fu proprio il posizionamento della Pasqua.

Dalla sua entrata in vigore il calendario giuliano aveva aggiunto sistematicamente un bisestile ogni quattro anni, compresi i secoli tondi che invece andavano saltati nel gregoriano. Nel corso di 1600 anni ciò era avvenuto 12 volte, e questa era quindi la quantità di tempo che andava recuperata per riallineare gli equinozi alle date scelte da Cesare. L’equinozio di primavera nel 16° secolo cadeva tra il 10 e l’11 marzo, e applicare questa correzione significava riportarlo tra il 22 e il 23 marzo. Sì, inizialmente Cesare l’aveva messo al 25, ma un paio di giorni devono essere stati mangiati nel caos prima dell’intervento di Augusto.

Schemino che mostra la posizione della Terra e del suo asse relativamente ai raggi solari nel corso dell’anno.
Crediti: Infini.to – Lorenzo Colombo

A Gregorio XIII questo però non interessava, perché le regole per il calcolo della Pasqua erano state stabilite nel 325 dal Concilio di Nicea. In quegli anni il ritardo giuliano accumulato era grossomodo di due giorni, e l’equinozio cadeva tra il 20 e il 21 marzo. Fu quindi deciso di “resettare” il calendario alla situazione del 325 d.C. e vennero quindi tolti 10 giorni: al 4 ottobre 1582 seguì quindi il 15 ottobre 1582. La riforma fu adottata immediatamente dai Paesi cattolici, ma non da quelli protestanti e ortodossi. L’adeguamento di questi avvenne molto più tardi, nel 18° secolo, dando luogo a un lungo interregno durante il quale lo stesso giorno aveva date diverse in luoghi diversi. L’ultimo Paese europeo ad allinearsi fu la Grecia, nel 1923, qualche anno dopo che anche la Russia e molti paesi slavi avevano sincronizzato i loro calendari a quello gregoriano a seguito della Rivoluzione d’Ottobre (che infatti iniziò il 6 novembre 1917 nel nostro calendario!).

Con l’equinozio di marzo ora fermamente posizionato tra il 20 e il 21 (raramente il 19), ora anche le altre stagioni hanno una casa stabile: il solstizio di giugno tra 20 e 22 (quasi sempre il 21), l’equinozio di settembre tra il 22 e il 23 (raramente il 24) e il solstizio di dicembre tra 21 e 22 (raramente 20 e 23). L’oscillazione delle date è una conseguenza proprio della natura frazionaria della durata dell’anno tropico: 365,2422, cioè quasi un quarto di giorno di troppo. Il che significa che ogni 4 anni le stagioni accumulano un ritardo di circa un giorno… proprio ciò che Numa Pompilio, Giulio Cesare e Gregorio XIII hanno cercato di imbrigliare e controllare.

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