L'Italia nello Spazio: dagli esordi al futuro

Dal 2021, il 16 dicembre, si celebra la Giornata Nazionale dello Spazio: infatti è poco noto, ma l’Italia è stato il quinto paese a progettare e a inviare autonomamente nello Spazio un proprio satellite, il San Marco 1 (1964), dopo giganti come Unione Sovietica (1957), Stati Uniti (1958), Regno Unito (1962) e Canada (1962).
Scopriamo insieme il lungo viaggio che ci ha portato da quel lontano 1964 fino ad oggi, e cosa ci riserva il futuro.
Pronti, partenza..via! L’avventura del San Marco 1
L’ASI, l’Agenzia Spaziale Italiana, nacque nel 1988, ma l’Italia già all’inizio del XX secolo dava il suo contributo all’esplorazione spaziale. In particolare, solo nel settore del volo, ricordiamo figure come Gaetano Arturo Crocco, il primo a formulare la tecnica della fionda gravitazionale, oggi ampiamente utilizzata da tutte le agenzie spaziali, e Luigi Broglio, considerato il padre dell’astronautica italiana e fondatore del progetto San Marco. Fu proprio grazie a Broglio che l’Italia riuscì anche ad essere la prima nazione con una base di lancio equatoriale, in Kenya, a lui intitolata.
Il satellite San Marco 1 faceva parte del progetto omonimo San Marco, il primo programma spaziale italiano, volto a creare una collaborazione tra Stati Uniti e Italia per la ricerca scientifica e l’esplorazione spaziale. Il progetto prevedeva, in una prima versione, la costruzione di otto satelliti, poi ridotti a cinque, e la loro messa in orbita, oltre alla formazione del personale italiano presso i centri NASA.
Il progetto San Marco è stato attivo dal 1962 al 1988. Prendeva il nome dalla piattaforma di lancio, una nave autosollevante offshore, messa a disposizione dall’ENI, che venne usata per i lanci successivi al primo, realizzato negli Stati Uniti, in Virginia.
La scelta dei nomi è proseguita con ironia e simbolismo: la parte della piattaforma preposta al lancio è stata battezzata Santa Rita, in onore della santa dei casi disperati, e la nave con a bordo la strumentazione per il coordinamento e la telemetria si chiamava Pegasus.
Il San Marco 1 fu lanciato la sera del 15 dicembre 1964 dalla base NASA di Wallops Island, in Virginia, a bordo di un razzo americano Scout. La gestione delle operazioni fu totalmente in carico al personale italiano. L’orbita scelta per il satellite prevedeva un perigeo di 198 chilometri e un apogeo di 856 chilometri.
Il San Marco 1 era una sfera con un diametro di 66 centimetri e aveva una massa di circa 115 chilogrammi. Portò a termine con successo la sua missione, ovvero studiare la densità dell’alta atmosfera tra i 180 e i 350 chilometri di altitudine ed eseguire esperimenti sulla ionosfera, studi necessari per comprendere e caratterizzare la resistenza dell’atmosfera alle alte altitudini per i successivi lanci spaziali.
Un team della NASA si riunì nel gennaio del 1965 per verificare l’esito della missione, certificando che erano stati raggiunti tutti gli obiettivi con successo e con un elevato standard di eccellenza. I risultati furono presentati ufficialmente alla comunità scientifica nel 1966 a Vienna durante una riunione del COSPAR (Committee on Space Research).
Gli altri quattro satelliti del progetto furono lanciati con successo dalla piattaforma San Marco in Kenya, oggi Centro Spaziale “Luigi Broglio”.
Si arriva così al 1988 quando venne fondata l’ASI e da allora l’Italia ha proseguito il suo viaggio nello Spazio con missioni proprie e con collaborazioni con organismi internazionali come, solo per citare alcuni, l’Agenzia Spaziale Europea (ESA), di cui l’Italia è membro fondatore, l’Agenzia Spaziale Canadese (CSA), l’Agenzia Spaziale Giapponese (JAXA) e la NASA. Inoltre, va considerato il prezioso contributo dei numerosi astronauti italiani, ben dodici, andati a bordo della Stazione Spaziale Internazionale o che hanno partecipato a voli orbitali o suborbitali.
Proseguiamo ora con alcune delle più importanti missioni in cui il contributo italiano è notevole.
La sonda che sfida il Sole! BepiColombo
Partiamo da vicino, molto vicino (al Sole).
BepiColombo è la prima missione dell’ESA e della JAXA dedicata allo studio del pianeta Mercurio. Il nome deriva da Giuseppe Colombo, detto Bepi, grande matematico, fisico, astronomo e ingegnere padovano. Scienziato brillante, tra i suoi tanti contributi in particolare si ricorda la scoperta dell’accoppiamento tra la rotazione e la rivoluzione di Mercurio: ogni tre rotazioni il pianeta compie due rivoluzioni. Questa scoperta fu usata dalla NASA per la missione Mariner 10. Grazie infatti a un suggerimento del fisico, la NASA modificò in itinere la missione e riuscì a far compiere alla sonda ben tre sorvoli di Mercurio al costo di uno, prima che esaurisse il combustibile.
BepiColombo è stata lanciata il 20 ottobre del 2018. Entrerà in orbita intorno a Mercurio alla fine del 2025, raccogliendo dati per un anno, ma la durata potrà essere estesa per un ulteriore anno.
BepiColombo ha come obiettivo studiare le caratteristiche fisiche di Mercurio, come composizione, atmosfera, campo magnetico, ma anche effettuare test sulla Relatività Generale. Mercurio è il pianeta più piccolo del Sistema Solare e sembra essere quello meno spettacolare, invece la sua estrema vicinanza al Sole lo rende molto interessante per comprendere meglio proprio la formazione e l’evoluzione dei pianeti vicini alla propria stella madre.
La sonda è composta da due moduli dagli acronimi MPO (Mercury Planetary Orbiter) e MMO (Mercury Magnetospheric Orbiter), rispettivamente dell’ESA e della JAXA, che lavoreranno su orbite diverse una volta arrivati a destinazione, più un terzo modulo strutturale MTM (Mercury Transfer Module) per il viaggio e la messa in orbita.
Mercurio è il secondo pianeta più vicino a noi dopo Venere, dista “solo” mezza unità astronomica, e la sonda Mariner 10 impiegò appena 147 giorni per raggiungerlo, eppure BepiColombo lo raggiungerà dopo 7 lunghi anni di viaggio, lo stesso tempo necessario per raggiungere Saturno, distante dalla Terra ben 9 unità astronomiche! Questo perché il viaggio è diverso: se la Mariner 10 ha “dato tre sbirciatine” a Mercurio mentre viaggiava verso il Sole, ed è tuttora (spenta) in orbita intorno alla nostra stella, il viaggio di BepiColombo è molto più ambizioso, perché vuole entrare in orbita stabile intorno a Mercurio. Inoltre, più ci si avvicina al Sole, più la velocità aumenta e centrare “l’obiettivo Mercurio” è un po’ come cadere da una rupe alta milioni di chilometri e atterrare dolcemente su un bersaglio in movimento, a metà strada! Per questo BepiColombo sfrutterà diversi incontri ravvicinati con i pianeti interni, Terra compresa, per rallentare quanto serve per riuscire a posizionarsi in orbita stabile intorno a Mercurio, sfruttando in modo opposto l’effetto fionda gravitazionale, solitamente usato per accelerare e raggiungere i pianeti esterni del Sistema Solare.
C’è nessuno? JUICE
Spostiamoci decisamente più lontano nello spazio per incontrare Juice (Jupiter Icy Moon Explorer). Lanciata il 14 aprile 2023, Juice è la prima missione esclusivamente dell’ESA diretta al Sistema Solare esterno.
Arriverà nel sistema di Giove nel 2031, sfruttando quattro volte l’effetto fionda gravitazionale con la Terra e Venere, passerà vicino all’asteroide 223 Rosa nel 2029, e nel 2034 entrerà in orbita intorno a Ganimede, ottenendo così lo status di primo veicolo spaziale a orbitare intorno a una luna diversa dalla nostra. Concluderà la sua missione un anno più tardi, nel 2035.
Il suo obiettivo è lo studio di Giove e delle sue tre lune ghiacciate Callisto, Ganimede ed Europa, particolarmente interessanti per le condizioni di abitabilità. I tre satelliti, infatti, hanno degli oceani sotto lo strato di ghiaccio della superficie. Di particolare interesse è soprattutto Ganimede, motivo per il quale la sonda rimarrà in orbita intorno alla gigantesca luna gioviana per un anno.
Al termine della missione e del suo propellente, dopo ben 35 sorvoli ravvicinati dei vari corpi celesti del sistema gioviano, Juice verrà fatta cadere proprio su Ganimede, fatto non in conflitto con le regole sulla protezione planetaria, perché si ritiene che la possibilità di contaminazioni biologiche da parte della sonda su Ganimede siano basse, perché su questa luna l’oceano si trova sotto uno strato di ghiaccio più spesso rispetto alle altre lune che Juice studierà. La missione comunque prevede anche la possibilità di correggere il luogo della caduta se eventuali scoperte scientifiche dovessero rilevare un aumento del rischio di contaminazione dovuto a spessori del ghiaccio inferiori al previsto.

Animazione di JUICE intorno al Sole ▇ Sole · ▇ Terra · ▇ JUICE · ▇ Venere · ▇ 223 Rosa · ▇ Giove
Il contributo italiano alla missione non si limita al solo know how, l’ASI ha infatti costruito, con l’aiuto della comunità scientifica nazionale, diversi strumenti scientifici della missione:
- RIME (Radar for Icy Moon Exploration), un radar sottosuperficiale ottimizzato per penetrare la superficie ghiacciata dei satelliti fino alla profondità di 9 chilometri;
- JANUS (Jovis, Amorum ac Natorum Undique Scrutator), una camera ottica per studiare la morfologia e i processi sulla superficie delle lune e per eseguire la mappatura delle nubi di Giove;
- lo strumento 3GM (Gravity and Geophysics of Jupiter and the Galilean Moons), per misurare il campo gravitazionale di Ganimede e la profondità degli oceani sulle lune;
- MAJIS (Moons and Jupiter Imaging Spectrometer), lo spettrometro per studiare le caratteristiche e la composizione della troposfera di Giove e per la caratterizzazione dei ghiacci e dei minerali sulle lune.
Una detective nello spazio: HERA
Tornando più vicino a casa, a quasi una unità astronomica, incontriamo la missione ESA denominata Hera, lanciata il 7 ottobre 2024.
Ha come obiettivo studiare le conseguenze dell’impatto della sonda NASA DART (Double Asteroid Redirection Test) sul sistema binario di asteroidi 65803 Didymos, avvenuto il 26 settembre 2022. Hera studierà in dettaglio le proprietà fisiche dei due asteroidi e del cratere creato. Capire infatti come si è modificato il sistema aiuterà a comprendere meglio la fisica dell’impatto, in modo da renderla ripetibile e quindi farla diventare uno standard di difesa planetaria. Hera raggiungerà il suo obiettivo alla fine del 2026.
L’obiettivo della missione DART era infatti testare la possibilità di deviare un corpo vagante come un asteroide nel caso in cui esso costituisca una minaccia per il nostro pianeta, dando inizio così al progetto di difesa planetaria di cui Hera rappresenta la seconda importante fase di analisi dei dati.
L’impatto di DART è avvenuto contro il corpo più piccolo del sistema binario prescelto, il piccolo Dimorphos, un oggetto delle dimensioni di 160 metri, che orbita intorno al più grande Didymos di 780 metri. il sistema binario fa parte della categoria di asteroidi chiamati near-Earth, che hanno cioè un’orbita più vicina alla Terra. Alcuni di essi possono essere potenzialmente più pericolosi perché intersecano l’orbita terrestre. Di seguito si può vedere lo spettacolare video dell’impatto ripreso direttamente dalla sonda DART:
Video degli ultimi cinque minuti e mezzo prima dell'impatto con l'asteroide, dal punto di vista di DART. Velocità aumentata di dieci volte, eccetto le ultime sei fotografie, mostrate con la stessa velocità con cui la sonda le ha inviate.
Credit: NASA/Johns Hopkins APL
Hera trasporta anche due piccoli satelliti di tipo CubeSat chiamati Juventas e Milani. I CubeSat sono piccoli satelliti a basso costo, delle dimensioni di una scatola da scarpe, normalmente utilizzati per scopi didattici. Ultimamente vengono impiegati in missioni ufficiali nello spazio, come nel caso della missione LICIACube, che faceva parte sempre della missione DART. Il CubeSat Milani è dedicato ad Andrea Milani Comparetti, professore di matematica all’Università di Pisa, pioniere della difesa planetaria, che per primo ha ideato l’attuale Centro di Coordinamento degli Oggetti Vicini alla Terra dell’ESA. Fu proprio Andrea Milani a suggerire una missione di difesa planetaria nel 2004 composta da due navicelle, chiamata Don Chisciotte, da cui derivano DART ed Hera. Milani è stato costruito a Torino dalla Tyvak International e trasporta uno spettroscopio, un rilevatore di polvere e un altimetro laser, che serviranno per mappare i due asteroidi. Il CubeSat volerà vicino agli asteroidi, fino a raggiungere l’altezza minima di 2 chilometri, ma senza poter entrare in un’orbita stabile e tradizionale intorno al sistema, a causa della sua gravità troppo bassa.
Entrambi i CubeSat tenteranno di atterrare sulla piccola luna Dymorphos al termine della missione.
Processo di dispiegamento dei due CubeSat. Credit: ESA
Immersi tra le stelle: GAIA
Come non citare anche la missione GAIA (Global Astrometric Interferometer for Astrophysics), la più importante missione di astrometria degli ultimi anni, ormai giunta quasi al termine.
Gaia, l’erede del satellite Hipparcos, è una missione dell’ESA lanciata in orbita il 19 dicembre del 2013. Si trova intorno al punto lagrangiano di equilibrio L2, a circa 1,5 milioni di chilometri dalla Terra. Inizialmente della durata di cinque anni, è stata estesa in un primo momento fino al 2022 e poi fino all’inizio del 2025. Gaia ha l’obiettivo di mappare la nostra galassia, catalogando circa un miliardo di stelle fino alla 20° magnitudine con estrema precisione. Si tratta di misure astrometriche delle stelle come posizione, moto proprio e distanza, ma anche fotometriche, che permettono di ottenere informazioni fisiche sulla composizione chimica, sulla velocità radiale, luminosità e temperatura. In questo modo Gaia sarà in grado di creare una mappa tridimensionale della Galassia e di studiare anche la sua origine, struttura ed evoluzione. Gaia inoltre è in grado inoltre di individuare esopianeti, ossia pianeti che ruotano intorno ad altre stelle, grazie alle misure astrometriche e ai transiti fotometrici, ma anche nane brune, supernovae extragalattiche e corpi celesti molto più vicini nel Sistema Solare, come altri NEO, Troiani e oggetti trans-nettuniani.
L’enorme mole di dati prodotti da Gaia è elaborata in sei centri in Europa, uno dei quali si trova in Italia, all’Osservatorio di Pino Torinese, il nostro vicino di casa!
Ci sono diverse curiosità sul satellite, quella che ha fatto più sorridere la comunità scientifica è stata la svista del telescopio Pan-STARRS delle Hawaii, del progetto Minor Planet Centre, che nel 2015 ha scambiato Gaia per un nuovo asteroide legato gravitazionalmente al sistema Terra-Luna, pubblicando la scoperta con tanto di nome 2015 HP116 per il nuovo oggetto che risultava avere un diametro di circa un metro, salvo poi pubblicare la ritrattazione poche ore dopo! Se poi vi siete mai chiesti dove si trovi il buco nero più vicino alla Terra e se possiamo stare tranquilli, Gaia ha la risposta per voi: i due buchi neri più vicini, Gaia BH1 e Gaia BH2, si trovano rispettivamente a “soli” 1560 e 3800 anni luce dalla Terra, nella costellazione dell’Ofiuco e del Centauro. Astronomicamente parlando, dietro l’angolo, ma ben lontani. Possiamo stare tranquilli!
E per il futuro? In realtà le missioni di cui abbiamo parlato rappresentano già il futuro, quando tra pochi anni potremo capire se ci potranno essere forme di vita su Ganimede, sorseggiando un Juice fresco, mentre guardiamo un bellissimo catalogo stellare della Galassia, comodamente seduti qui sul nostro pianeta Gaia.
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