Illustrazione realizzata nel 1997 che mostra il flyby di Giove da parte della sonda Pioneer 1.
Crediti immagine: Wikipedia - Rick Guidice

Pioneer 10

Oltre le Colonne d’Ercole

Quando il 3 marzo del 1972 partì la sonda Pioneer 10 erano già stati raggiunti tantissimi obiettivi dell’esplorazione spaziale. Nel 1957 lanciammo il primo satellite, e già nel 1962 Venere era stato sorvolato dalla prima sonda interplanetaria della storia, così come Marte aveva ricevuto la sua prima visita, nel 1965. Entrambi gli obiettivi furono raggiunti grazie al programma Mariner degli Stati Uniti d’America, per grande scorno dell’Unione Sovietica che aveva raggiunto entrambi i pianeti per prima, ma senza che le sue sonde funzionassero. Per non parlare poi della Luna, che aveva visto il trionfo del programma Apollo e lo sbarco di ben quattro missioni con equipaggio.

In pratica, in quei 15 anni febbrili l’umanità aveva imparato a sguazzare nell’acqua bassa del Sistema Solare interno e dei suoi quattro pianeti rocciosi. Restava però ancora una grande sfida da affrontare: l’oceano aperto del Sistema Solare esterno, al di là della fascia principale degli asteroidi. Questa regione rappresentava le Colonne d’Ercole moderne, la frontiera dell’esplorazione, e per affrontare quel viaggio sarebbero servite nuove tecniche e tecnologie.

Schemino che mostra il Grand Tour di Flandro, intrapreso poi dalle sonde Voyager 1 e 2
Crediti immagine: Nasa

Il periodo storico era particolarmente favorevole: a inizio anni ‘60 un giovane ingegnere della NASA, Gary Flandro, aveva concepito una missione esplorativa molto ambiziosa nota come “Grand Tour del sistema solare”, che sfruttava un allineamento molto raro e conveniente dei pianeti esterni. Per prepararsi a questa missione la NASA decise quindi di costruire due sonde gemelle, per testare le tecnologie e le manovre necessarie. Furono chiamate Pioneer 10 e 11. Il loro obiettivo era quello di attraversare incolumi la fascia degli asteroidi, e visitare per la prima volta i pianeti Giove e Saturno.

Pioneer 10 e 11 non erano sonde gigantesche o complicate. Ciascuna di esse aveva una massa di circa 250 kg e possedeva undici strumenti scientifici, principalmente dedicati allo studio dell’ambiente spaziale (vento solare, campo magnetico, plasma, raggi cosmici, radiazione, polveri e meteoroidi) a cui si aggiungevano un fotometro ultravioletto, una fotocamera polarimetrica e un sensore a infrarossi per misurare il calore planetario. Le comunicazioni erano garantite da una grande antenna dal diametro di 2,74 metri, in grado di trasmettere 256 bit al secondo con due trasmettitori da 8 watt ciascuno. La memoria di bordo era di 6144 byte. Sono numeri che oggi fanno sorridere, ma all’epoca rappresentavano il top di gamma, che solo una sonda spaziale della NASA poteva permettersi.

Fotografia d’epoca del lancio della sonda. Crediti: NASA Ames Resarch Center (NASA-ARC)

Un’altra novità era la fonte di energia: le due Pioneer dovevano andare così lontano che i pannelli solari usati fino a quel momento sarebbero stati totalmente inutili. Ecco quindi che le Pioneer furono le prime sonde interplanetarie equipaggiate con una batteria nucleare: un termogeneratore a radioisotopi, o RTG. Questo sistema sfrutta il calore di decadimento di un pellet di plutonio-238 per generare energia elettrica tramite una termocoppia. È molto comodo, perché il Pu-238 decade con un tempo di dimezzamento di circa 88 anni, e quindi può garantire energia alla sonda per molto tempo. Gli RTG sono stati usati in seguito da molte altre missioni (dalle Voyager al rover Perseverance), ma all’epoca questa era una cosa nuova. Le Pioneer avevano due RTG ciascuna, che generavano in totale 155 watt di potenza, tenuti a circa 3 metri di distanza dalla sonda da dei tralicci sottili. Il magnetometro era in cima a un terzo supporto, a 6,6 metri di distanza.

Il lancio di Pioneer 10 avvenne esattamente 51 anni fa, il 3 marzo 1972, grazie a un razzo Atlas-Centaur. Il tutto era stato progettato per dare alla sonda più velocità possibile, e infatti Pioneer 10 divenne l’oggetto più veloce mai lanciato dall’umanità: raggiunse i 51.000 km/h e superò l’orbita della Luna in appena 11 ore! Solo New Horizons nel 2004 fece meglio.

A luglio di quell’anno, dopo quattro mesi di viaggio, Pioneer 10 entrò nella fascia degli asteroidi, la prima nella storia. Gli astronomi erano già ragionevolmente sicuri che alla sonda non sarebbe capitato nulla di che, ma fu comunque un sollievo quando andò tutto bene. Anzi, gli strumenti di bordo misurarono una presenza di polvere interplanetaria fine (meno di 1 micrometro) inferiore rispetto all’ambiente intorno alla Terra, mentre quella più grossolana (tra 0,1 e 1 millimetro) era tre volte più abbondante. La sonda non passò mai a meno di 8,8 milioni di km da un asteroide noto, ed emerse dalla fascia nel febbraio del 1973, dopo sette mesi e 450 milioni di km. Ora non rimaneva che arrivare a Giove.

La prima, storica, foto della luna Ganimede, che da Terra all’epoca era visibile solo come un puntino. Crediti: Nasa

A novembre del 1973 Pioneer 10 iniziò ad acquisire immagini del pianeta, e il 1° dicembre di quell’anno queste divennero migliori delle immagini ottenibili da Terra. Il 4 dicembre avvenne l’incontro ravvicinato, ad appena 130.000 km di distanza. Le immagini di Giove e delle lune Callisto, Ganimede ed Europa vennero mostrate in tempo reale al pubblico, nelle trasmissioni televisive, e per questo il programma Pioneer vinse addirittura un Emmy Award! La sonda dovette affrontare una prova tremenda, cioè il passaggio attraverso le fasce di radiazione della magnetosfera gioviana, la più potente del sistema solare. I livelli di radiazioni lì sono 10.000 volte superiori a quelli della magnetosfera terrestre, tali che generarono persino dei falsi comandi nelle elettroniche della sonda. Pioneer 10 sopravvisse all’incontro, ma i comandi erronei impedirono di ottenere immagini della luna Io. Il 3 gennaio del 1974 l’incontro con Giove venne dichiarato concluso con successo pressoché totale.

E poi iniziò la parte più epica del viaggio di Pioneer 10. Perché l’incontro con Giove fu pianificato in modo da tentare, per la prima volta, una nuova manovra orbitale: la fionda gravitazionale per fuggire dal sistema solare. E fu un successo! La sonda venne inserita su una traiettoria di espulsione, che l’avrebbe portata ad abbandonare per sempre la nostra stella. Nel 1976 superò l’orbita di Saturno, e nel 1983 quella di Nettuno. Nel 1998 Pioneer 10 perse il record di oggetto più lontano, quando venne superata dalla sonda Voyager 1. Il flebile segnale del trasmettitore venne ricevuto fino al 2003, quando si trovava a 12 miliardi di km di distanza (80 unità astronomiche), dopodiché calò il silenzio. L’energia prodotta dall’RTG era diventata troppo poca per alimentare il trasmettitore, che dopo 30 anni smise così di funzionare. Pioneer 10 era ora silenziosa, in viaggio eterno nello spazio interstellare.

Questa foto mostra la placca montata sulle sonde Pioneer 10 e 11, evolutasi poi nel Disco d’Oro delle due sonde Voyager. Crediti: NASA-ARC – Ames Pioneer 10

Sulla scia del successo di Pioneer 10 venne lanciata la sua gemella, Pioneer 11, che nel 1979 divenne la prima sonda a visitare il pianeta Saturno, e infine le due sonde Voyager, le protagoniste vere e proprie del visionario Grand Tour di Gary Flandro. Tutte e quattro le sonde divennero interstellari, in virtù delle loro velocità di fuga, e ci fu qualcuno che colse questa opportunità per mandare un messaggio alle stelle e a chi un giorno potesse trovare questi relitti spaziali. Fu Carl Sagan, che progettò per le sonde Pioneer la cosiddetta “placca Pioneer”. Si tratta di una semplice placca di alluminio anodizzato con oro che mostra una miniatura della sonda, del sistema solare e di due esseri umani. A questi si aggiunge una mappa stellare per trovare il Sole a partire dalla posizione di alcune stelle di neutroni pulsanti, o pulsar, veri e propri fari cosmici in grado di mantenersi inalterati per milioni di anni. Il tutto è corredato da istruzioni per interpretare la mappa, realizzate con un linguaggio simbolico che una civiltà in grado di viaggiare nello spazio non dovrebbe aver problemi a interpretare.

È improbabile che la placca delle Pioneer, o il Disco d’Oro montato sulle Voyager, venga mai trovata da qualcuno. A che scopo allora lanciare nello spazio qualcosa del genere? È un messaggio simbolico, più per noi che per un qualche alieno. La consapevolezza che qualcosa creato dalle nostre mani continuerà a esistere, anche molto tempo dopo che saremo scomparsi da questo pianeta.

Fonti

Beyond Earth – A CHRONICLE OF DEEP SPACE EXPLORATION, 1958 – 2016
https://ghostarchive.org/archive/DHkEN
https://history.nasa.gov/SP-349/ch5.htm
https://nssdc.gsfc.nasa.gov/planetary/pioneer10-11.html

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