Entrambe le sonde Voyager hanno ormai abbandonato l’eliosfera, e si sono avventurate nel mezzo interstellare. Questo pur trovandosi ancora nella sfera di influenza gravitazionale del Sole. Crediti: NASA/JPL-Caltech

Le sonde Voyager

La più grande avventura spaziale della Storia

Le Voyager hanno fatto cose che nessuno aveva previsto, osservato scene che nessuno si aspettava, e promettono di sopravvivere ai loro stessi inventori. Come un grande dipinto o un’istituzione hanno acquisito un’esistenza propria, un destino al di là della nostra portata.

Stephen J. Pyne

46 anni fa, il 20 agosto 1977, partiva da Cape Canaveral la prima delle due sonde Voyager, iniziando così un viaggio che ci avrebbe portato a rivoluzionare la nostra conoscenza del Sistema Solare e dei suoi pianeti più esterni, e che ci porterà nel futuro remoto a raggiungere le stelle stesse.

Il Grand Tour del Sistema Solare

Le radici di questa impresa risalgono a molto tempo prima, al 1965. Quell’anno Gary Flandro scoprì che nei tardi anni ‘70 sarebbe stato possibile visitare tutti pianeti esterni del sistema solare grazie a un loro particolare allineamento. Un evento che si ripresenta una volta ogni 175 anni e quindi imperdibile. Nacque così il Planetary Grand Tour, un programma di esplorazione spaziale che avrebbe portato quattro sonde a visitare Giove, Saturno, Urano, Nettuno e persino Plutone.

Il percorso seguito dalle due sonde Voyager nel corso dei primi 12 anni della loro missione.
Crediti: NASA / Rehua (Wikimedia Commons)

Purtroppo però negli anni successivi il progetto fu molto ridimensionato, e finì per essere assorbito dal glorioso programma Mariner. Stiamo parlando della serie di sonde che sorvolò (flyby) per la prima volta Venere, Marte e Mercurio. Le due sonde Mariner successive, 11 e 12, avrebbero dunque intrapreso il Grand Tour, dirigendosi verso il Sistema Solare esterno. Per l’occasione furono ribattezzate Mariner Jupiter-Saturn, ma pochi mesi prima del lancio il programma venne ulteriormente ribattezzato Voyager, per distinguere il progetto e sottolineare l’evoluzione tecnologica intervenuta.

A seguito delle riduzioni operate, il pezzo forte del programma Voyager non era più il Grand Tour, ma l’esplorazione di una luna saturniana particolare: Titano. Negli anni ‘40 si era scoperto che questo satellite, più grande persino di Mercurio, possedeva un’atmosfera significativa. Il che lo rendeva unico tra tutte le lune note, e quindi molto interessante.

La prima immagine ravvicinata di Titano, scattata il 2 settembre 1979 dalla sonda Pioneer 11 a circa 360.000 km di distanza.
Crediti: NASA

Prima delle Voyager sarebbero però partite altre due sonde: Pioneer 10 e 11. Il loro obiettivo era andare in avanscoperta ed essere le prime a superare la Fascia Principale degli Asteroidi e a raggiungere i giganti gassosi. La Fascia venne superata con successo, e Giove venne sorvolato per la prima volta da Pioneer 10 nel 1973. Nel 1974 toccò a Pioneer 11, che proseguì e raggiunse infine Saturno per prima nel settembre del 1979. Durante il suo flyby del pianeta diede anche un’occhiata a Titano, per aiutare a pianificare le osservazioni che sarebbero state compiute dalle Voyager. I dati di Pioneer 11 confermarono la presenza dell’atmosfera e diedero una prima stima delle sue caratteristiche.

Nel frattempo, nel 1977 erano partite le Voyager. Il loro viaggio seguiva una traiettoria molto più diretta e rapida di quella della Pioneer 11, motivo per cui impiegarono molto meno a raggiungere Saturno. L’obiettivo era semplice: eseguire un flyby di Giove, usare la sua gravità per raggiungere rapidamente Saturno, e una volta lì eseguire un flyby della sua luna Titano.

Gli oceani di Titano

Il programma Voyager aveva come priorità l’esplorazione di Titano, ma alla NASA non si erano dimenticati del Grand Tour e della possibilità che offriva. Il problema era però la posizione del satellite, troppo inclinata rispetto al piano del Sistema Solare. Significava che per poterlo sorvolare da vicino bisognava rinunciare a proseguire il Tour verso i giganti ghiacciati esterni.

Proprio per questo vennero costruite due sonde gemelle: la Voyager 2 era infatti il backup della Voyager 1. Nel caso in cui questa non fosse riuscita a studiare Titano, allora ci avrebbe pensato la seconda. Se invece la prima riusciva nell’intento, allora la seconda avrebbe potuto proseguire verso Urano e Nettuno. In tal modo si garantiva quella che era la priorità assoluta (il sorvolo di Titano), ma si lasciava aperta la porta al Grand Tour. In tutto questo il povero Plutone (all’epoca ancora considerato tra i pianeti) rimase infine escluso. Bisognò aspettare il 14 luglio del 2015 e la sonda New Horizons per avere le prime immagini anche da questo mondo!

La sonda Voyager 1 fotografò per la prima volta un vulcano di Io in eruzione: il pennacchio eruttivo si innalza per circa 160 km! Il vulcano venne poi chiamato “Loki”.
Crediti: NASA/JPL-Caltech

La prima sonda a partire fu Voyager 2, il 20 agosto 1977, in quanto sonda di backup e quindi su una traiettoria più lenta. Voyager 1 partì invece due settimane più tardi, il 5 settembre, e raggiunse Giove a marzo 1979. Poco dopo fu la volta di Voyager 2 (luglio 1979). Le due sonde scattarono foto che ancora oggi figurano tra le migliori a nostra disposizione e fecero molte scoperte. Una su tutte: i vulcani di Io! Questo sorprese molto i planetologi, perché tale satellite era considerato troppo piccolo per poter sostenere attività vulcanica.

Le due Voyager scoprirono anche che Giove è dotato di un sistema di anelli molto sottile, inosservabile da Terra, e aggiunsero tre lune al totale di quelle conosciute. Infine, le osservazioni di Voyager 2 mostrarono che la superficie di Europa era praticamente senza crateri, ma solcata da linee che ricordavano canyon. Indice di una superficie giovane ricca di attività geologica.

Collage di Giove e delle sue lune principali realizzato con immagini di Voyager 1 Crediti: NASA/JPL-Caltech

La spessa atmosfera di Titano, avvolta da nuvole e aerosol impenetrabili, fotografata dalla sonda Voayger 1. Crediti: NASA/JPL-Caltech

Il 12 novembre 1980 Voyager 1 si presentò puntuale al suo appuntamento con Saturno, e la sonda eseguì alla perfezione il suo sorvolo di Titano. Durante la manovra misurò accuratamente le proprietà e la composizione dell’atmosfera del satellite, scoprendo qualcosa di totalmente inatteso: le condizioni di temperatura (-179 °C) e pressione (1,5 bar) rendevano possibile l’esistenza di laghi di idrocarburi, principalmente metano ed etano liquidi. Voyager 1 non riuscì a osservare direttamente alcun bacino di liquido, complice la spessa atmosfera del satellite, ma la scoperta gettò le basi di quella che sarebbe stata la missione successiva: Cassini-Huygens. Qualche mese più tardi, ad agosto 1981, toccò alla Voyager 2.

Riguardo a Saturno, i dati delle Voyager permisero di misurare accuratamente il periodo di rotazione del pianeta, scoprire altre tre lune e ricavare la composizione chimica atmosferica. Questa risultò stranamente impoverita di elio rispetto al suo fratello maggiore Giove. Mentre per Voyager 1 l’avventura planetaria era ormai conclusa, i giochi per Voyager 2 stavano solo iniziando. Con il successo del flyby di Titano, la sonda infatti era ora libera di proseguire alla volta di Urano!

I giganti ghiacciati

Urano fotografato dalla Voyager 2 poco prima del suo sorvolo.
Crediti: NASA/JPL-Caltech

Il settimo pianeta del Sistema Solare venne raggiunto cinque anni più tardi, il 24 gennaio 1986. Davanti agli occhi robotici della sonda comparve un modo dal colore ceruleo quasi totalmente privo di dettagli. Dai dati della Voyager 2 vennero scoperte 11 lune, si misurò il periodo di rotazione del pianeta e se ne caratterizzò l’atmosfera e il campo magnetico. Anche Urano stupì i ricercatori, perché tale campo era completamente disassato e fuori centro rispetto alle attese.

Voyager 2 ottenne anche le prime (e finora uniche) fotografie ravvicinate dei cinque satelliti principali e degli anelli del pianeta. Le lune in particolare incuriosirono i ricercatori perché mostravano superfici molto variegate. Ciò faceva intendere una situazione simile a quella presente nel sistema saturniano: alcune sono coperte da un maggior numero di crateri, a indicare una superficie antica, altre invece sono chiaramente più lisce, e quindi geologicamente attive.

Collage delle cinque lune principali di Urano fotografate dalla Voyager 2. Ad oggi queste sono le immagini migliori a nostra disposizione. Crediti: NASA/JPL-Caltech/Ted Stryk/CC BY-NC-ND 3.0 *

Nettuno fotografato dalla Voyager 2 poco prima del suo sorvolo.
Crediti: NASA/JPL-Caltech

Il secondo appuntamento fu il 25 agosto 1989, con Nettuno. Anche in questo caso era la prima volta (e finora unica) che si vedeva così da vicino questo pianeta dal bel colore blu. La sonda scoprì sei lune, misurò il periodo di rotazione e riscontrò lo stesso campo magnetico anomalo che caratterizza Urano, indicando una possibile origine comune. L’atmosfera del pianeta sembrava essere più ricca di dettagli di quella uraniana, data la presenza di una vistosa macchia scura (simile a quella gioviana) e di nuvole biancastre di ghiaccio d’acqua. Voyager 2 misurò anche i venti più potenti del Sistema Solare: oltre 1200 km/h!

Per quanto Voyager 2 abbia scoperto tantissimo sul conto dei due giganti ghiacciati, rimangono ancora molte questioni irrisolte, e come tipico della scienza le risposte fornite dalla sonda portarono a molte più domande di quelle che avevamo alla partenza. In particolare Tritone, la più grande delle lune nettuniane, rimane avvolto da uno spesso alone di mistero, reso ancora più affascinante da quanto osservato dalla Voyager 2.

Tritone fotografato da Voyager 2. Visibile una calotta polare, uno strano terreno retato e delle macchie scure, forse geyser di azoto. Crediti: NASA / Jet Propulsion Lab / U.S. Geological Survey

Tritone infatti orbita al contrario rispetto alla rotazione suo pianeta (unico tra i satelliti principali del Sistema Solare), e lo fa pure su un’orbita molto inclinata rispetto all’equatore nettuniano. Assomiglia moltissimo a Plutone, e ciò ha fatto pensare che potrebbe trattarsi di un suo cugino rimasto catturato dalla gravità nettuniana. Potrebbe possedere una geologia attiva: svariati sbuffi nerastri fanno pensare alla presenza di geyser o criovulcani, e l’imponente calotta polare a un qualche ciclo geologico/climatico in corso.

Il sorvolo di Tritone pose una problematica simile a quello di Titano: portò la sonda Voyager 2 ad allontanarsi dal piano del Sistema Solare, rendendo impossibile un incontro con Plutone e concludendo la parte interplanetaria del suo viaggio. Ma è qui che cominciò l’ultima, affascinante, fase del programma: il viaggio interstellare.

Un messaggio per le stelle

Durante la loro visita ai giganti gassosi, infatti, le sonde avevano sfruttato il fenomeno della fionda gravitazionale per aumentare la loro velocità e percorrere in tempi più brevi le immense distanze tra pianeti. Di conseguenza le sonde hanno anche raggiunto e superato la velocità di fuga dal Sole, e sono quindi destinate ad abbandonare il Sistema Solare per non tornare mai più. Un’altra occasione ghiotta per studiare lo spazio attorno alla nostra stella… e portare un messaggio dell’umanità all’Universo.

Il Family Portrait di Voyager 1, mostrato anche nel contesto della posizione della sonda relativamente ai pianeti del Sistema Solare. Crediti: NASA/JPL-Caltech

Il Pale Blue Dot realizzato da Voyager 1. La Terra è il singolo pixel luminoso.
Crediti: NASA/JPL-Caltech

Il 14 febbraio 1990, la sonda Voyager 1 si girò per l’ultima volta verso il Sole e scattò una serie di fotografie. È il cosiddetto “ritratto di famiglia”, voluto fortemente da un grande astronomo e divulgatore: Carl Sagan. Un mosaico che mostra tutti i pianeti del Sistema Solare, insieme al Sole. Una di queste fotografie mostra la Terra come un singolo pixel luminoso perso in un bagliore: un granello di polvere sospeso in un raggio di Sole, come lo chiamerà Sagan nel suo meraviglioso monologo “Pallido Puntino Blu”. Dopo questa fotografia la sonda spense la sua fotocamera, per sempre. Non c’era più nulla da vedere nel buio del Sistema Solare esterno. Ma c’era ancora molto da ascoltare.

Le Voyager infatti mantengono ancora alcuni strumenti attivi, principalmente per la misurazione delle proprietà del vento solare. Questo è una sorta di soffio di particelle che viene prodotto incessantemente dal nostro Sole, e che si allarga in ogni direzione… finché non si scontra con il gas rarefatto che riempie lo spazio tra le stelle, il mezzo interstellare. Questa bolla piena di gas prodotto dal Sole è chiamata “eliosfera”, ma non è simmetrica. A causa del moto del Sole nella Galassia, possiede una sorta di prua, come una nave che fende le onde durante il suo moto. Ebbene, entrambe le sonde Voyager hanno incontrato e superato quest’onda di prua, e sono entrate nello spazio interstellare. Ciò avvenne per Voyager 1 nel 2012 e per Voyager 2 nel 2018.

Entrambe le sonde Voyager hanno ormai abbandonato l’eliosfera, e si sono avventurate nel mezzo interstellare. Questo pur trovandosi ancora nella sfera di influenza gravitazionale del Sole.
Crediti: NASA/JPL-Caltech

Il segreto della longevità delle due sonde è nella loro fonte di energia: le Voyager sono equipaggiate con uno RTG (Radioisotope Thermoelectric Generator). In pratica dei pellet radioattivi di plutonio-238, che decadendo producono calore da trasformare in energia per le sonde. Ma persino questa fonte di energia si sta esaurendo, e negli anni ‘30 perderemo infine anche la capacità di comunicare con loro. La missione attiva sarà finalmente conclusa.

Ma anche così non sarà ancora detta l’ultima parola, perché le sonde sono portatrici di un messaggio. Al momento si trovano rispettivamente a 160 e 133 unità astronomiche dal Sole (circa 24 e 20 miliardi di km), che in termini umani è lontanissimo, ma dal punto di vista dell’astronomia siamo ancora nel giardino di casa. Serviranno 300 anni perché raggiungano il bordo interno della nube di comete che circonda il Sole, la nube di Oort, e almeno 30.000 anni perché la attraversino tutta. Solo allora le due sonde saranno, veramente, interstellari e libere dalla gravità solare. Questo viaggio tra le stelle della Via Lattea è destinato a durare per sempre.

Il Golden Record e il suo coperchio, con le istruzioni di lettura
Crediti: NASA/JPL-Caltech

Nell’eventualità incredibilmente remota che questi manufatti siano trovati e studiati da un’intelligenza aliena, magari miliardi di anni nel futuro, sulle due sonde è stato installato un disco d’oro, il Golden Record, voluto e progettato sempre da Carl Sagan. In esso ci sono immagini e suoni del nostro mondo e della nostra civiltà, dal rombo di un vulcano, al suono di un treno al pianto di un bambino, insieme a saluti in oltre 50 lingue terrestri, sia moderne che estinte. Sul coperchio del disco sono incise le istruzioni per leggerlo, realizzate con un linguaggio simbolico e facilmente interpretabile, si presume, per una mente in grado di costruire navi spaziali e trovare le Voyager.

È virtualmente impossibile che ciò avvenga mai. Perché allora includere questo messaggio? È più che altro un gesto simbolico, lo abbiamo fatto per noi. Qualcosa della nostra cultura e della nostra storia continuerà a vivere, per sempre, tra le stelle della nostra Galassia, anche miliardi di anni dopo che la nostra specie si sarà estinta, o trasformata fino a diventare irriconoscibile ai nostri occhi. Una testimonianza di ciò che siamo stati, e di ciò che avremmo voluto essere.

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