Il disco di Giove fotografato nel 2000 dalla sonda Cassini, mentre Galileo era ancora operativa. Crediti: NASA/JPL/Univ. of Arizona

La missione Galileo

Al cospetto di Giove

Con una massa più del doppio di quella di tutti gli altri pianeti combinati, Giove è il vero padrone del Sistema Solare. È stato il primo pianeta a formarsi, e la sua nascita e posizione hanno determinato il destino di tutti gli altri. Non stupisce quindi che i planetologi fossero particolarmente impazienti di svelare i segreti di questo gigante, mandando verso di esso la prima missione spaziale dedicata a un gigante gassoso: la sonda Galileo.

Questa sonda non s’ha da fare

Il progetto Galileo nasce nell’epoca d’oro dell’esplorazione spaziale, contemporaneamente a missioni storiche come le Pioneer e le Voyager. Il problema principale era che la tecnologia dell’epoca ancora non permetteva di costruire qualcosa che fosse in grado di entrare in orbita attorno a Giove, e così ci si mise al lavoro. L’anno di inizio vero e proprio del progetto è il 1977, lo stesso della partenza delle due Voyager, con l’obiettivo di raggiungere Giove nel 1982. Le cose però andarono un po’ diversamente.

Galileo era una sonda molto complessa e ambiziosa, basata sul design delle Voyager ma progressivamente arricchito ed espanso. Con una massa al lancio di 2,5 tonnellate sarebbe stato il più grande oggetto mai mandato nel Sistema Solare esterno, e l’obiettivo di entrare in orbita attorno al pianeta invece di limitarsi a passargli vicino non faceva altro che complicare le cose. I progettisti inclusero anche una sonda atmosferica, che Galileo avrebbe sganciato verso il pianeta e poi monitorato dall’orbita.

Nelle intenzioni dei progettisti, Galileo sarebbe dovuta partire con il prossimo venturo Space Shuttle, in fase di ultimazione. Una volta in orbita bassa, lo Shuttle avrebbe aperto le porte della baia di carico e liberato nello spazio la sonda. La partenza verso Giove sarebbe stata possibile grazie a uno speciale modulo propulsivo aggiuntivo, lo Inertial Upper Stage. Il problema era che lo IUS così come sviluppato dalla Boeing non era sufficientemente potente per mandare un oggetto così massiccio su una traiettoria diretta verso Giove! Si potevano fare delle fionde gravitazionali intermedie, ma la cosa non era considerata elegante e la traiettoria risultante avrebbe richiesto un tempo più che doppio. NASA e Boeing cominciarono quindi a studiare come potenziare lo IUS.

La sonda Galileo nel Vertical Processing Facility ad agosto 1989, prima di essere accoppiata con lo IUS che l’avrebbe lanciata verso Giove.
Crediti: NASA

Nel mentre il tempo passava, e il programma Shuttle era in ritardo, così come la progettazione dello IUS potenziato. Si cominciò a considerare il lancio separato della Galileo e della sonda atmosferica, in quanto le due assieme erano troppo massicce per lo IUS. Infine nel 1981 si cambiò completamente idea, e a lanciare il tutto dalla baia di carico dello Shuttle sarebbe stato un Centaur G Prime, lo stadio superiore di un razzo vero e proprio.

In quanto alla sonda le cose non stavano andando bene, perché più il tempo passava più emergevano difetti di progettazione, o semplicemente i componenti invecchiavano più del dovuto. Anche dal punto di vista finanziario le minacce erano incombenti, perché per ben due volte l’intero programma rischiò la cancellazione. Finalmente a fine 1985 la sonda fu portata a Cape Canaveral, per essere preparata per il lancio a maggio 1986.

E poi successe il Challenger. A gennaio 1986 lo Space Shuttle Challenger esplose a 75 secondi dalla partenza, uccidendo i sette astronauti a bordo. L’intera flotta di Shuttle venne bloccata a terra, in attesa di capire cosa fosse successo, posticipando indeterminatamente il lancio di Galileo. Il programma Shuttle-Centaur venne cancellato, per timori sulla sua sicurezza, e la sonda si ritrovò così senza lanciatore. Nel 1987 venne restituita al Jet Propulsion Laboratory, con il serio rischio che il suo prossimo viaggio fosse verso un museo.

Determinati a non perdere l’occasione di studiare Giove da vicino, i ricercatori del JPL misero insieme un nuovo piano, e finirono per mandar giù l’amaro boccone: fu messa a punto una traiettoria indiretta, che avrebbe fatto uso di più flyby dei pianeti interni. Venne chiamata manovra VEEGA: Venus-Earth-Earth Gravity Assist. Avrebbe richiesto più tempo, sarebbe stato più difficile comunicare con la sonda, il pianeta era posizionato peggio, ma permetteva comunque di arrivare su Giove usando lo IUS originale. Lancio previsto per ottobre 1989.

Il lancio dello Space Shuttle Atlantis nella missione STS-34, con a bordo la sonda Galileo.
Crediti: NASA

Non è finita qui però, perché la sonda finì per attirare anche gli strali del movimento anti-nucleare. Giove è troppo lontano dal Sole perché l’uso di pannelli solari fosse fattibile nel 1989, e quindi Galileo, esattamente come le Voyager e le Pioneer, possedeva un termogeneratore a radioisotopi. Gli incidenti accaduti al Challenger, a Chernobyl e al satellite Cosmos 954 ponevano per la prima volta la questione di cosa sarebbe accaduto al plutonio della sonda, in caso di disastro. Il JPL e la NASA pubblicarono tutte le loro informazioni in merito, mostrando quanto era stato fatto per minimizzare il rischio, specialmente in caso il secondo flyby con la Terra facesse distruggere la sonda nella nostra atmosfera. Ciò rassicurò il grande pubblico, ma non tutti. Le proteste furono condotte in modo così vibrante da alcune comunità, che la sonda partì di notte dal JPL alla volta di Cape Canaveral, su un percorso mantenuto segreto. Persino il giorno prima del lancio furono arrestati attivisti che si erano introdotti di nascosto nella base di lancio.

Il 18 ottobre 1989, nonostante sembrasse avere contro l’intero Universo, lo Space Shuttle Atlantis con a bordo la sonda partì dal Kennedy Space Center.

Viaggio con sorpresa

Fotografia di Venere scattata dalla sonda Galileo a febbraio 1990
Crediti: NASA/JPL

La traiettoria VEEGA era una novità per l’epoca, ma sarebbe diventata quasi la norma per le successive grandi missioni di esplorazione spaziale. Anche Cassini l’avrebbe utilizzata, dieci anni più tardi.

L’incontro con Venere avvenne a febbraio 1990, e permise di testare gli strumenti scientifici e di ottenere molte informazioni sul nostro gemello, anche se tale evento non era stato previsto nel progetto iniziale della sonda. Per esempio vennero scoperti dei fulmini sul pianeta, e localizzato per la prima volta il fronte d’urto dove il vento solare interagisce con l’atmosfera venusiana.

La Terra fotografata dalla sonda Galileo nel dicembre 1990.
Crediti NASA/JPL

Dopo Venere toccò alla Terra, che venne sorvolata l’8 dicembre 1990 ed esattamente due anni dopo, l’8 dicembre 1992. Questa era la prima volta che la Terra veniva usata per eseguire una fionda gravitazionale, e la prima volta che una sonda ritornava nei pressi del nostro pianeta dopo essere stata nello spazio profondo. L’opportunità non venne sprecata, e anche la Terra fu oggetto di osservazioni da parte della sonda. Galileo studiò la coda della magnetosfera planetaria, e vide dallo spazio i danni inferti allo strato d’ozono planetario. Una serie di esperimenti escogitati da Carl Sagan permise anche alla sonda di rilevare dallo spazio le prove della presenza di una biosfera sulla Terra, mostrando che il pianeta soddisfaceva i “criteri per la vita di Sagan” e che quindi tali tecniche potevano essere usate remotamente anche su altri pianeti.

Illustrazione che mostra come si suppone si sia bloccata l’antenna ad alto guadagno durante il dispiegamento. Crediti: NASA/JPL

Purtroppo i guai per Galileo non erano finiti, perché poco dopo il primo flyby della Terra venne scoperta una nuova magagna, potenzialmente in grado di pregiudicare l’intera missione. Fino ad aprile 1991, infatti, la sonda aveva comunicato con la Terra usando solo le due antenne a basso guadagno. Queste possono essere usate su distanze relativamente corte, ed erano state preferite all’antenna ad alto guadagno, la principale, per proteggere quest’ultima dalla feroce insolazione solare nei pressi di Venere. Una volta in viaggio verso Giove queste cautele non erano più necessarie, e quindi venne dato il comando di estensione all’antenna principale… e non successe niente. O almeno, successe che delle 18 costole estensibili se ne mossero in posizione solo 15, e l’intero apparato rimase bloccato come un ombrello rotto. Senza l’antenna ad alto guadagno le comunicazioni alla distanza di Giove potevano avvenire a velocità molto più ridotta, limitando seriamente la quantità di dati che la sonda poteva trasmettere a Terra.

La causa del problema fu individuata nel tempo e nell’abbandono. Per oltre 3 anni la sonda era rimasta in giacenza al JPL, quasi dimenticata, per non parlare di tutti gli anni di attesa prima del disastro del Challenger. In totale subì ben tre viaggi su strada, non proprio un toccasana per alcune delle sue componenti. Il comando di apertura venne mandato all’antenna circa 10 anni dopo che l’ultimo ingegnere vi aveva messo sopra le mani. In quel lasso di tempo il lubrificante delle costole si era logorato e consumato, in particolare di quelle più vicine al piano stradale. Fu tentato di tutto per sbloccare l’antenna, senza ottenere alcun risultato. La missione proseguì dunque con le due antenne a basso guadagno, e i planetologi dovettero farsele andare bene.

243 Ida e il piccolo Dattilo, fotografati dalla sonda Galileo il 28 agosto 1993.
Crediti: NASA/JPL

Il viaggio della sonda la portò quindi a inoltrarsi nella Fascia Principale degli Asteroidi, dove compì il primo sorvolo della storia di un asteroide! Si trattò di 951 Gaspra, a cui seguì qualche mese più tardi 243 Ida. Attorno a quest’ultimo fu scoperta anche la prima luna asteroidale della storia, Dattilo. La perdita dell’antenna ad alto guadagno funestò i risultati della campagna osservativa di tali oggetti, in quanto servivano circa 60 ore per scaricare a Terra una singola immagine usando le antenne a basso guadagno – la banda era di appena 40 bit/s. Solo il 16% dei dati ottenuti venne effettivamente scaricato.

Come se non bastasse, pochi mesi prima dell’arrivo su Giove anche il sistema di registrazione dei dati, un nastro magnetico da 114 megabyte, cominciò a dare problemi, che avrebbero accompagnato la missione fino alla sua fine.

Finalmente, Giove

Sembrava impossibile, ma alla fine Galileo ce la fece. Il 7 dicembre 1995 la sonda entrò nel sistema gioviano, e si preparò a uno dei compiti più delicati della missione: l’ingresso nell’atmosfera gioviana della sonda atmosferica, sganciatasi da Galileo circa cinque mesi prima. Il modulo di discesa attraversò gli anelli e le fasce di radiazione di Giove, facendo osservazioni e scoperte totalmente inattese, e colpì gli strati atmosferici più esterni alle 22:04, mentre si muoveva a oltre 76.000 km/h. Nel giro di due minuti il modulo rallentò a velocità subsoniche, subendo una decelerazione pari a 228 volte la gravità terrestre e perdendo circa metà della massa del suo scudo termico, affrontando temperature di oltre 16.000 °C. Ancora oggi è il rientro atmosferico più violento mai eseguito nella storia dell’esplorazione planetaria.

Il modulo di discesa contenente la sonda atmosferica della missione Galileo, fotografato durante l’assemblaggio in laboratorio.

La sonda cominciò quindi a scendere lentamente nell’atmosfera gioviana, grazie al dispiegamento di un grande paracadute. Dopo 5 minuti dall’impatto iniziale raggiunse la quota “zero” del pianeta, cioè dove la pressione atmosferica è pari a quella terrestre, 1 bar. Tre minuti dopo incontrò uno strato di nubi di ammoniaca, a circa 13 km di profondità e a una pressione di 1,6 bar. Questo stupì i planetologi, che si aspettavano invece tre strati distinti tra i quali uno di nubi di vapore acqueo. La discesa proseguì per circa 60 minuti totali e portò la sonda fino a una profondità di 180 km nelle nubi gioviane, prima che le trasmissioni si interrompessero a una pressione di 22,7 bar. La caduta della sonda è probabilmente proseguita per svariate centinaia di km, finché pressioni di oltre 5000 atmosfere e temperature superiori a 1700 °C non la disintegrarono completamente. Anche la composizione atmosferica misurata dalla sonda si rivelò diversa dalle attese, con molti più elementi pesanti e molto meno elio delle previsioni, dimostrando che c’era ancora molto da imparare sul conto del pianeta.

Durante tutta la manovra Galileo stette in ascolto, registrando i dati mandati dalla sonda atmosferica 200.000 chilometri più in basso. Completata la ricezione, Galileo doveva inserirsi in orbita attorno a Giove, prima di essere rispedita nello spazio interplanetario dalla sua ciclopica gravità. I propulsori vennero accesi con successo, e Galileo entrò in un’orbita di parcheggio molto ampia. Il suo passaggio ravvicinato a Giove le era costato molto, esponendo i suoi strumenti a una dose di radiazione molto superiore alle attese e quasi mandandola fuori uso. Ma oramai il più era fatto, e dopo oltre sei anni di viaggio la missione era pronta a iniziare il suo studio del sistema gioviano.

Un tesoro scientifico

Essere i primi in un qualsiasi posto significa mettere le mani su una sconfinata serie di misteri e domande, e Galileo era arrivata su Giove apposta per saziare la curiosità dei planetologi. La sonda venne mantenuta per tutta la missione su un’orbita piuttosto allungata, che le permetteva di rimanere a lungo lontana dagli ambienti più radioattivi della magnetosfera gioviana e fare solo delle puntate mordi-e-fuggi nelle sue regioni più interne e letali. Queste orbite portarono anche la sonda a incontrare più volte le quattro lune principali di Giove, i satelliti medicei.

Collage delle quattro immagini migliori ottenute dalla sonda Galileo per le lune medicee, rappresentate in scala relativa. Da sinistra: Io, Europa, Ganimede e Callisto. Crediti: NASA/JPL/DLR

Io fotografato da Galileo nel 1997. Il grande anello rosso sono depositi di zolfo prodotti dal vulcano Pele, lo spot grigio che lo interrompe sono depositi piroclastici depositati dal vulcano Pillan, in una potente eruzione avvenuta qualche mese prima.
Crediti: NASA/JPL

Io: La più interna delle lune medicee è di poco più grande della nostra Luna, ma non potrebbe essere più diversa. Si tratta di un mondo devastato dalle eruzioni vulcaniche, alimentate dal calore liberato dalle potenti maree indotte da Giove e dalle altre lune medicee. I vulcani di Io furono stati scoperti nel 1979 dalle immagini della Voyager 1, e con Galileo abbiamo potuto vederli in azione da molto, molto vicino. La luna venne sorvolata sei volte nel corso della missione, a volte a poche centinaia di km dalla superficie, e ciò permise di osservarne il paesaggio in perenne mutamento. In appena quattro mesi il vulcano Loki Patera ricoprì oltre 10.000 km quadrati di lava fresca, e durante il secondo flyby venne addirittura osservata una fontana di lava in azione, alta oltre 1500 metri. Le osservazioni di Io vennero funestate dalla sua posizione in profondità nella magnetosfera gioviana, e molti dati furono persi a causa delle interferenze generate nei sistemi della sonda. Più volte Galileo perse l’orientamento, o andò in modalità di sicurezza sospendendo le azione poco prima del sorvolo.

Alcuni dettagli della superficie europea, che ne mostrano l’elevata complessità geologica e ne indicano la natura dinamica.
Crediti: NASA / JPL-Caltech / SETI Institute (Mario Valenti)

Europa: La seconda luna medicea è un po’ più piccola della nostra, ma è probabilmente la più interessante. Già grazie alle osservazioni da Terra si sapeva che questa era coperta quasi interamente di ghiaccio, e Galileo confermò tale composizione. La superficie ghiacciata di Europa è attraversata da una spaventosa rete di crepe titaniche, ma è particolarmente povera di crateri. La constatazione a cui arrivarono i planetologi è che la superficie di questa luna è molto giovane, meno di 70 milioni di anni, e deve quindi essere continuamente rinnovata da processi endogeni. I dati della sonda facevano supporre la presenza di un vasto oceano di acqua liquida, profondo decine e decine di km, sotto a una crosta ghiacciata relativamente sottile (8-20 km). L’oceano (oggi confermato) sarebbe mantenuto liquido dallo stesso riscaldamento mareale che mantiene caldo il nucleo di Io, e attivi i suoi vulcani.

Ritratto globale di Ganimede ottenuto dalla sonda Galileo nel 1998. Particolarmente evidenti sono le striature chiare, intervallate da vaste zone più scure punteggiate occasionalmente da un cratere più giovane.
Crediti:NASA/JPL-Caltech/Kevin M. Gill

Ganimede: La più grande luna del sistema solare, addirittura più grande del pianeta Mercurio, non poteva certo deludere i planetologi. I dati della sonda svelarono un mondo complesso quasi quanto un pianeta, dall’interno stratificato (un nucleo ferroso, un mantello roccioso e una vasto oceano d’acqua profondo centinaia di km, sotto a una crosta di ghiaccio spessa 200 km) e in possesso di un campo magnetico proprio, unico tra tutti i satelliti. Anche la superficie, divisa tra zone molto lisce e prive di crateri (e quindi giovani) e zone molto butterate (e quindi antiche) era indice di un dinamismo inaspettato per un mondo del genere.

Il cratere Valhalla su Callisto, fotografato dalla sonda Galileo.
Crediti: NASA/JPL

Callisto: Di poco più piccola di Mercurio, Callisto è la più esterna delle quattro lune medicee ed è l’unica a non obbedire al bizzarro balletto di risonanze che lega le più interne (Io orbita quattro volte e Europa due volte per ogni orbita di Ganimede). La sonda Galileo ha scoperto che possiede una superficie sfregiata da una grande quantità di crateri, ed è totalmente priva di campo magnetico. Questo nonostante le sue dimensioni e la sua composizione siano molto simili a quelle di Ganimede, a indicare che i due oggetti si sono evoluti molto diversamente. Un cratere su tutti attira l’attenzione: si tratta di Valhalla, un bacino d’impatto ampio oltre 2000 km la cui struttura ad anelli concentrici suggerisce ancora di più l’esistenza di un oceano liquido profondo centinaia di km sotto alla crosta ghiacciata, esattamente come per Europa e Ganimede.

Una conclusione nel fuoco

La sonda Galileo non si limitò a studiare solo queste quattro lune, ma anzi raccolse una quantità di informazioni impressionante su Giove e sul suo sistema. La sonda ottenne le prime immagini ravvicinate delle quattro lune più interne, misurò la massa della più grande (Amaltea), osservò i sottili anelli del pianeta con un dettaglio altrimenti impossibile, seguì l’evoluzione dell’immensa meteorologia del pianeta, in particolare della Grande Macchia Rossa, e mappò l’estesa magnetosfera del pianeta. La missione della sonda finì per durare quasi otto anni, ben oltre le richieste iniziali. Una prima estensione, chiamata “Galileo Europa Mission” si focalizzò sullo studio di tale luna, fino alla fine del 1999. Una seconda estensione, chiamata “Galileo Millennium Mission” portò le operazioni della sonda nel nuovo millennio.

Illustrazione che mostra il sorvolo di Amaltea, uno degli ultimi compiti della sonda.
Crediti: NASA/JPL/Michael Carroll

Fu anche trovato un modo per aggirare il problema della perdita dell’antenna ad alto guadagno: la velocità iniziale di 8-16 bit/s venne portata a oltre 160 tramite l’utilizzo di algoritmi di compressione all’avanguardia e all’aumento della capacità hardware delle antenne del Deep Space Network. Il collegamento contemporaneo di più antenne in rete portò tale velocità a picco di 1000 bit/s. Molto lontano da 134 kbit/s che sarebbero stati permessi dall’antenna ad alto guadagno, ma centinaia di volte meglio di quanto inizialmente possibile.

Infine, anche la sonda Galileo dovette soccombere al tempo. Nel 2002 le fotocamere vennero spente, perché rese ormai inutilizzabili dalla radiazione gioviana, dopo aver assorbito oltre tre volte la dose di radiazione totale per la quale erano state progettate. Lo stesso anno anche il nastro magnetico cominciò a diventare sempre più inaffidabile, complici i danni inflitti dalle radiazioni alle elettroniche di controllo. L’ambiente di Giove non perdona, e aveva imposto un tributo pesantissimo alla sonda e ai suoi sistemi vitali.

La scoperta che Europa possedeva acqua liquida relativamente vicino alla superficie, e che alcuni batteri erano sopravvissuti a oltre tre anni di esposizione allo spazio sulla superficie della nostra Luna (sui pezzi della sonda Surveyor 3 riportati a Terra dagli astronauti di Apollo 12) pose un nuovo, inedito problema: i batteri terrestri avrebbero potuto trovare un ambiente adatto negli oceani di Europa, potenzialmente contaminandola e cancellando le tracce di eventuale vita aliena locale preesistente. Una possibilità estremamente remota, ma la sonda Galileo non era stata sterilizzata alla perfezione, nessun sistema può farlo senza distruggere la sonda, e quindi si decise di non rischiare. La sonda venne quindi indirizzata su un’ultima orbita attorno a Giove e il 21 settembre 2003, alle 18:57 tempo universale, la sonda si disintegrò nella sua atmosfera, seguendo il destino che era toccato alla sonda atmosferica quasi otto anni prima. Così si concluse la prima, gloriosa, missione gioviana, la prima di molte altre.

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